Sono a fare visita a una mia familiare che è ricoverata in ospedale.
Siamo nella sua stanza. Lei è distesa a letto e io sono seduta accanto a lei, su una sedia. Stiamo chiacchierando, quando entra un’infermiera. Deve fare una medicazione alla mia familiare e dice: “Buongiorno… dovrei fare una medicazione alla paziente…” e, rivolgendosi a me “Scusi signora, può uscire un momento per favore? Signora o signorina… Non so…”. Io farfuglio qualcosa, non chiarisco il suo dubbio, mi alzo ed esco dalla stanza.
“Signora o signorina?”
Alla parola “signorina” sento un colpo. E immediatamente scatta il dialogo interno fra i miei sottosé.
Per primi si fanno sentire quelli più arrabbiati: “Che bisogno c’è di specificare? Non siamo mica all’anagrafe!”, “Alla nostra età siamo tutte signore!”, “Ancora con questa storia dell’essere sposate o no!”
Poi emergono quelli più impauriti e lamentosi: “Si vede così tanto che non siamo sposate..??”, “Che figura… alla nostra età…”
Infine, il peggiore, il sottosé più cattivo di tutti. Arriva IL GIUDIZIO:
Lo vedono tutti che sei una ZITELLA.
ZITELLA. Ho scoperto che questa parola deriva dal termine “zita”, con il significato di ragazzina, fanciulla, giovane donna. Un’etimologia totalmente diversa dall’accezione negativa con la quale questa parola viene comunemente usata: “donna non più giovane, non sposata, di carattere acido”.
Nella regione in cui sono nata (il Friuli), la parola che traduce l’italiano “zitella” è “vedrane”. Vedrane è ancora peggio di zitella. Se provate a pronunciarlo a voce alta, sentirete che ha un suono duro e ruvido. In Friuli si rincara ancora di più la dose quando, in modo spregiativo, si dice di una donna che non ci è simpatica, che è “une vedranate” (una zitellaccia).
Sono cresciuta con una vedrane in casa
Era una donna anziana, una prozia, che non si era mai sposata e che ha abitato con me e la mia famiglia durante tutta la mia infanzia e la mia adolescenza. Tutti la schernivano per il fatto di non aver trovato marito: “Nessuno ti ha voluta, per questo non ti sei mai sposata!”. Al che lei si difendeva arrabbiata “Non è vero! In molti me l’hanno chiesto, ma io ho sempre rifiutato!”.
Nessuno le credeva. Né che avesse ricevuto molte proposte, né che lei non avesse voluto formare una famiglia sua.
Sono cresciuta con questo modello di donna in casa ed è stato un modello forte. La prozia era una donna potente. Posso riconoscere ora quanto ho ricevuto da lei e quanto mi ha formata.
Però, capite, non era considerato un modello positivo. Tutti la giudicavano, tutti la deridevano. Oltre al fatto di non essere sposata, aveva un carattere… da zitella!
Rigida, perfettina, precisina, puntigliosa, a volte acida, un po’ bisbetica, giudicante… La famiglia la viveva come un peso.
Io, però, non sono una zitella.
Cosa mi succede dunque? Mi si domanda “Signora o signorina?” e io ho un tuffo al cuore? Perché?
Succede che ho la prozia dentro di me.
E’ diventata una parte di me. E una parte importante, molto importante.
Quando l’infermiera mi pone quella domanda, in un istante io mi ritrovo in una delle tante scene della mia infanzia dove le donne di casa dicevano alla zia “Non ti ha voluto nessuno!” e lei “Sì che mi hanno voluto! Sono io che non ho voluto!”.
Quando sento “Signora o signorina?”, la prozia dentro di me d’impeto vorrebbe rispondere “Ma ci mancherebbe altro! Guardi che io ce l’ho un uomo, cosa crede?!”
Non sono una zitella. Però mi sento zitella. Zitella dentro. Sono tutte queste cose. Tutti questi aspetti del carattere della zia, tanti suoi comportamenti… E ne ho un giudizio tremendo.
Il giudizio di tutti i miei familiari, che la schernivano e la deridevano.
Il giudizio della prozia stessa nei suoi confronti, che si palesa quando fa di tutto per difendersi e per negare le accuse.
Perché giudico in questo modo il mio carattere?
Mi rendo conto di averne una grande vergogna e che faccio di tutto per nasconderlo. Una delle parole con cui vengo più spesso definita è rigida. Un’altra è seria. Un’altra ancora è dura. Dentro di me scatta una voce a dire “non va bene che sei rigida, non va bene che sei così seria e così dura. Ti devi ammorbidire…”.
Ma sapete, più ci diciamo che dobbiamo fare una cosa, più una parte di noi si oppone.
Più dico alla zitella di addolcirsi, più quella si inasprisce.
Non si tratta di cambiare la zitella, né di eliminarla. Si tratta di comprenderla. La mia prozia non solo non ha avuto un marito e una famiglia suoi, ma, dai racconti che faceva, non ha avuto nemmeno una vita, un’infanzia sue. Per gran parte della sua vita non è stata nelle condizioni di poter scegliere niente. C’era grande povertà, c’era la guerra, c’erano i fratellini a cui badare…
Non ha goduto di molta dolcezza nella vita.
Nel mio percorso c’è stato un momento in cui ho rivalutato la mia serietà e la mia direttività.
Mi sono resa conto che potevano essermi utilissime. Un giorno mi sono accorta che essere seria mi donava tantissimo. Come un abito cucito su misura. Mi sono detta: posso smetterla di fare tanti sorrisi vuoti e posso mostrarmi seria, così come mi sento. Mi sono rilassata enormemente.
Ho poi scoperto che il mio essere direttiva mi poteva essere di grande aiuto nel mio lavoro, quando le persone sono confuse o saltano da un discorso all’altro. Rendendomi conto di questo, ho provato grande gratitudine verso questa parte di me e ho iniziato a trattarla con rispetto e considerazione.
Il paradosso è che quando smetto di fare pressione, quando smetto di pensare che devo cambiare, allora il cambiamento si fa, spontaneamente.
Ora mi domando:
Se tornassi indietro, a quel giorno in ospedale, cos’è che mi piacerebbe veramente dire all’infermiera quando mi domanda “Signora o signorina?”. Cos’è che mi darebbe veramente soddisfazione dire e che non mi sono permessa di dire?
La guarderei e, con un bel sorriso soddisfatto, le direi “Sono una SIGNORA signorina!!”. Sono una super signorina, mi piaccio, mi approvo e mi voglio bene. E, per questo semplice fatto, la signorina dentro di me si ammorbidirebbe, si addolcirebbe, si emozionerebbe. E ritornerebbe ad essere un po’ più zita e un po’ meno zitella.