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Eravamo rimasti a che cos’è quest’odio che ho sentito verso di me.

L’ etimologia di questa parola fa riferimento a “essere privo di corrispondenze”: odiamo ciò che ci sembra totalmente lontano da noi, ciò che avversiamo, ciò verso cui siamo del tutto intolleranti. Qualcosa che non ci corrisponde.

So di essere una persona molto controllante. Il controllo è parte di me. Lo so bene. Dunque, com’è possibile che il controllo non mi corrisponda? E’ me!

E’ me, è una parte di me potentissima, forte, piena di energia. Ma… non è integrata.

Diciamo che un aspetto di noi non è integrato per intendere che lui c’è, ma che noi vorremmo che non ci fosse. E vorremmo che non ci fosse perchè lo giudichiamo sbagliato, cattivo, negativo, pericoloso, ecc ecc.
Io sono controllante, ma penso che sia sbagliato, che non vada bene. Dunque controllo, ma al tempo stesso nego di controllare o mi giustifico del fatto di controllare. Nego di essere ciò che sono, oppure cerco delle scuse per dire “sono così ma per un valido motivo!”.

Per essere certa di allontanarmene, proietto all’esterno il mio controllo. Proiettare significa che non lo vedo e non lo riconosco in me, ma lo vedo invece all’esterno. In questo caso lo proietto sui sensori dell’auto.

Questa è la mia contraddizione e il mio conflitto.

Con questo, la mia auto non c’entra niente. L’auto mi fa da specchio. Mi riflette il mio controllo. Ricordate quando ho detto “Potrei vivermela come un aiuto, e invece la vivo come un controllo”?.

Percepisco la realtà esterna per com’è la realtà interna.

Dobbiamo anche sapere che più reprimiamo e neghiamo un aspetto di noi, più questo lotterà con forza per potersi manifestare. Questo vale in generale: il modo migliore di rafforzare qualcosa è lottarci contro.
Dobbiamo anche sapere che questo accade perchè noi non possiamo separarci da noi stessi e le parti di noi che rifiutiamo maggiormente ci torneranno indietro continuamente nelle relazioni con i nostri partner, figli, colleghi, amici…

Un mio insegnante, anni fa, diceva “Se rifiuti una parte di te, la devi sposare!”.

Dunque, dicevamo: sono una controllora, ma non mi accetto per quello che sono, perchè penso che il controllo sia una gran brutta cosa.

Quello che ho imparato

Quello che ho imparato, però, è che il controllo in sè, come tutte le cose, non è nè buono nè cattivo, nè giusto nè sbagliato. E’ un’opzione. Sta a me usare questa opzione con criterio.
Si direbbe che io la uso moltissimo, all’eccesso (dunque senza criterio) pur ritenendola sbagliata! Ma, se la uso, devo anche ritenere che è utile. E allora, se la ritengo utile, come è possibile che la ritenga al tempo stesso sbagliata?!

Il mio autocontrollo mi ha permesso di raggiungere risultati importanti nella mia vita, obiettivi a cui tenevo. La mia tenacia, il fatto di non mollare mai mi hanno aiutata in tanti momenti difficili.

Ma ho bisogno di imparare a discernere sempre di più e sempre meglio quando usarlo e quando no. Ho bisogno di imparare ad usarlo con criterio e a non farmi dominare da lui.
Rendermi conto che le cose, a volte, devono andare non come voglio io.

L’eccesso che io noto nei sensori è il mio eccesso. La loro ipersensibilità, la loro iperallerta è la mia. Se succede questo..?! e se succede quello..?! Come farò se…?! Ce la farò…?!

Anch’io vivo con i sensori sempre all’erta.

Non sapendo in che altro modo vivere, il controllo mi offre l’illusione di poter, appunto, controllare quello che succede, parando colpi ed evitando stress.

Mio padre mi ripeteva sempre “Ti devi fasciare la testa prima di essertela rotta!”. Ok, grazie papà, ma questa non è vita!

Se io devo vivere con la testa fasciata per paura di rompermela, questa non è vita! Innanzitutto sto partendo dal presupposto che la vita è dolore, è problemi, è avere guai. Certo, nella vita ci sono dolori, problemi e guai, però non solo!

Poi, se io credo questo, lo creerò.
Voglio dire che se io credo che la vita sia dolore, io vivrò tutto con dolore e vedrò tutto sotto forma di problemi e di guai.
“Potrei vivermi gli accessori dell’auto come un aiuto. E io invece li vivo come un problema”.

Il paradosso

Quindi il paradosso diventa: per evitare i problemi, io sto creando problemi, anche dove non ce ne sono! Perchè vivo nell’ottica che tutto è un problema. Non c’è altro.

Non è sbagliato fasciarsi la testa prima di rompersela. Ma devo usare questo principio con criterio.

Se devo fare un esame o se ho un colloquio di lavoro importante, mi preparo adeguatamente.
In questo senso “mi fascio la testa”: mi preparo, studio, faccio tutto quello che ritengo possibile e utile fare per affrontare la prova che devo affrontare.

Poi però, fatto questo, mi affido.
Io dò il meglio di me, ce la metto tutta e poi… sia quel che deve essere.
Se nonostante tutto il mio impegno non passo l’esame o non ottengo il lavoro o una relazione si conclude…. forse doveva andare così.
Provo a prendere atto di questo, senza darmi addosso, senza giudicarmi, senza odiarmi.

Avendo fiducia che in quello che percepiamo come un fallimento o una sconfitta c’è senz’altro un apprendimento per noi, qualcosa di ancora più importante dell’esame o del lavoro o dello stare con una certa persona.

Da quando ho acquisito questa consapevolezza quando salgo in macchina e lei inizia a fare bip bip, le parlo sottovoce, con dolcezza, come a un’amica un po’ ansiosa, e le dico “Stai tranquilla, non succede niente… sono solo i rametti della siepe… è tutto a posto”.
Lo dico a lei e lo dico a me.

“Se arrivi qualche minuto dopo, non succede niente… se non riesci a finire il lavoro entro i termini, non succede niente… e se succede, vuol dire che doveva succedere e lo affronterai! Non avere paura, è tutto a posto”.