Eravamo rimasti al motivo per il quale l’episodio positivo dei due gemelli fosse stato spazzato via dall’episodio negativo delle due bambine.
Solo ora mi rendo conto di quante analogie e punti in comune ci siano fra questi due episodi!
In entrambi ci sono una coppia di bambini: due bambini nel primo, due bambine nel secondo. L’età è circa la stessa, siamo sugli 8-10 anni. I maschietti sono gemelli, le bambine potrebbero essere sorelle (una è leggermente più grande dell’altra). In entrambe c’è un gatto e in entrambe le situazioni, dovuto al comportamento dei bambini, il gatto scappa. Sì, perché anche nell’episodio dei gemelli il gatto scappa!
I bambini sono così premurosi nei suoi confronti, così desiderosi di portargli cibo e che lui mangi che, in un modo che è del tutto opposto (e complementare) a quello delle bambine, gli stanno troppo addosso!
Gli portano quattro-cinque teste di pesce, si accucciano a terra vicino a lui per assicurarsi che mangi, gli parlano, lo accarezzano, poi vanno ai tavoli e tornano con altro pesce…
Il gatto è stressato!
Non riesce a mangiare tranquillo e alla fine si arrampica su un albero. E neanche lì può stare tranquillo perché uno dei gemelli prende una sedia, ci sale sopra e cerca di arrampicarsi sull’albero. A quel punto i genitori intervengono e lo riportano al tavolo.
Dunque, rileviamo un filo conduttore: il bambino sta addosso all’animale.
In entrambe le scene abbiamo un/a bambino/a che, con intenzioni opposte, sta addosso ad un animale. E l’animale scappa.
Possiamo capire che l’animale scappi quando gli si lanciano contro sassi, ma credo che ci sembri un po’ più strano che scappi anche quando gli si “lanciano” addosso troppe premure e molto cibo.
Da notare che in entrambe le scene non è il gatto ad andare verso i bambini, ma sono loro ad andare verso il gatto.
Anche nel caso dei gemelli, il gatto non sta chiedendo cibo direttamente a loro. Il gatto sta girando, loro lo vedono e loro decidono di portargli del cibo.
Quello che si vede è che il movimento parte dai bambini, dal loro interno, non dall’esterno (dal gatto).
I bambini sentono un bisogno, di allontanare il gatto o di avvicinarlo.
Ma, se osserviamo ancora più da vicino, facciamo uno zoom ancora maggiore, entrambe i bambini (anche la bambina) sentono il bisogno di avvicinarsi al gatto.
Il Paradosso
Perchè il paradosso della scena della bambina è che il gatto è distante da lei. E’ lei che, per farlo allontanare ancora di più, gli si avvicina! Dunque anche lei si avvicina. Vediamo dunque due cose importanti.
La prima è che sono i bambini che sentono il bisogno di avvicinarsi al gatto, non il gatto a loro.
La seconda è che è un bisogno eccessivo, che in entrambe i casi, paradossalmente, porta il gatto ad allontanarsi da loro, a non volerli vicini.
E ora veniamo a me.
Io sono come i bambini. Anch’io ho bisogno di avvicinarmi ai gatti.
E’ vero, i gatti sono lì, tra i tavoli che girano e aspettano il cibo. Ma mi sono scoperta in vari momenti in cui non c’era nessun gatto al mio tavolo a cercare con gli occhi dove ce ne fosse uno da nutrire.
Questo è il MIO bisogno, non il bisogno del gatto.
Se il gatto ha fame e vuole mangiare e viene da me a quel punto io posso dargli da mangiare oppure no, come ritengo di fare.
Ma se il gatto è a un altro tavolo o sta girando o si sta facendo i fatti suoi e io lo cerco e lo chiamo e gli voglio dar da mangiare, allora sono io che ho bisogno di lui, non viceversa.
La conseguenza di questo è che è il mio bisogno che crea e mantiene la situazione della quale mi lamento e per la quale dico di soffrire tanto!
Cioé: mi lamento che ci sono troppi randagi affamati e sofferenti e che nessuno fa niente per contenere il fenomeno. Però sono io con il mio atteggiamento che mantengo il fenomeno. Finchè io ho bisogno di nutrire i gatti, ci saranno gatti denutriti e affamati!
E’ il mio bisogno che crea i gatti affamati, non l’inverso.
Noi normalmente pensiamo: c’è un gatto affamato e bisognoso e dunque io gli dò da mangiare (oppure lo caccio). Se il gatto non ci fosse, non lo farei.
Io invece inverto il pensiero e ragiono così: siccome io, per motivi miei, ho bisogno di nutrire, accudire, curare (o cacciare) il gatto, allora un gatto affamato, randagio, malato (o aggressivo) si presenterà a me.
Qualcuno ha detto: ti sia dato secondo ciò che desideri.
Io vedo fuori quello che non voglio guardare dentro di me.
Io vedo necessità nel gatto, bisogno, fame, bisogno di cure… certamente il gatto ha in sè
queste cose ma non si sta rivolgendo a me in quel momento. Anzi, il gatto sta sostenendo il suoi bisogni, se ne sta facendo carico. Quando ha fame si ferma a un tavolo, miagola, se qualcuno gli dà da mangiare mangia, sennò passa a un altro tavolo. Punto.
Io invece non mi faccio carico del mio bisogno e lo proietto su di lui. Vedo il bisogno nel gatto perché il bisogno è in me.
Sono io quella che, metaforicamente parlando, ha fame, che si sente sola, che ha bisogno di cure e di accudimento.
Ma non riconosco questi bisogni in me. Non li vedo in me. Sono troppo dolorosi da riconoscere.
Ma certo non possono essere eliminati.
Se non li riconosco e non li posso eliminare, li devo proiettare all’esterno. Come uno specchio, il gatto è una superficie perfetta in cui riflettermi. E la bambina che lancia i sassi è una rappresentazione meravigliosa di tutta l’ambivalenza che provo verso la parte di me denutrita, trascurata, abbandonata.
Amore e paura. Compassione e fastidio. Dolore e rabbia.
E il gatto? Il meraviglioso gatto che sostiene con regale e maestosa dignità il suo diritto al suo spazio, al suo territorio, a non essere invaso (nemmeno dalle premure), che sostiene soprattutto il suo bisogno. Non elemosina, non pretende. Sostiene. Quando c’è da mangiare si mangia, quando non ce n’è, non ce n’è. Non si ribella al suo destino. Lo sostiene. Senza rabbia, senza rancore, senza vendicatività.
Anche lui è una rappresentazione di una parte di me, della mia parte Adulta.
In alcuni momenti ancora così labile, al tempo stesso desiderosa di crescere e di rinforzarsi, di maturare e fortificarsi per potersi finalmente occupare dei bisogni di quella bambina che nonostante tutto si sente ancora randagia.