Avevo concluso la prima parte dell’articolo parlando di genitori e di figli. Vi propongo ora di ragionare insieme su questa storia.
Un figlio vuole studiare Architettura. Il padre, avvocato, figlio di un avvocato, vuole che studi legge. E’ la tradizione di famiglia. C’è uno studio legale già avviato, con una buona reputazione, che aspetta solo di essere portato avanti.Il figlio si sente in conflitto.
Vuole bene a suo padre, non vuole dispiacerlo. Ma fare l’avvocato non è proprio il suo… Si sente arrabbiato con suo padre, che non lo capisce, non lo vede, non si rende conto che lui è bravo a disegnare, non a imparare a memoria codici! Si sente anche triste e addolorato, perché è da tutta la vita che cerca di compiacere suo padre, che cerca la sua approvazione, che non arriva mai.
Gli sembra così ingiusto dover rinunciare a fare quello che gli piace e in cui è bravo e al tempo stesso si sente in colpa a deludere suo padre.
Vive, o per meglio dire, rivive un conflitto che è lì da tanto tempo. Questa è solo l’ennesima situazione in cui si ripresenta. E naturalmente qui la posta è più alta. Stiamo parlando del futuro di un ragazzo, della sua professione, dell’attività che lo occuperà, forse, per il resto della vita.
Il figlio cerca di spiegare le sue ragioni al padre “Non mi sento portato per le discipline giuridiche, vorrei fare un lavoro più creativo, la dialettica non è il mio forte…”.
Dal canto suo il padre porta le sue ragioni “Se ti applichi ce la puoi fare… un lavoro da avvocato ti può garantire un buon futuro… io e tuo nonno abbiamo investito tutto in questa attività… se non la porti avanti tu finirà tutto…”. Cercano di convincersi a vicenda.
Ma arriva il momento in cui bisogna iscriversi all’università. Bisogna scegliere.
Architettura o Giurisprudenza.
A quel punto, il conflitto deve esplodere. Deve trovare una via d’uscita.
Esploderà dentro di lui, se il ragazzo rinuncia al suo sogno e si iscrive a Giurisprudenza. Esploderà fuori, con il padre, se il figlio non rinuncia alla sua idea e si iscrive ad Architettura. Il conflitto è presente, in ogni caso. Nel momento in cui padre e figlio sentono e vogliono cose diverse, il conflitto è lì. Sono in conflitto. Da tutta una vita.
Padre e figlio vogliono cose diverse.
Il figlio è estroverso. Il padre, che ha avuto un padre severo con cui non era possibile esprimere i propri sentimenti, si sentirà in difficoltà a gestire la vivacità e l’energia del figlio. Gli insegnerà che è meglio essere introversi.
Il figlio è creativo. Ama disegnare, costruire, pensare paesaggi e posti nuovi. Il padre non ha mai goduto di libertà. Suo padre ha sempre deciso per lui. Gli risulta intollerabile che il figlio si goda la libertà. Da un lato lo invidierà, dall’altro lo reprimerà. Di nuovo, perché non si tratta di giudicare nessuno: il nonno non è cattivo.
Se andassimo a guardare la sua storia, probabilmente troveremmo un bisnonno che non si è curato della famiglia, assente, che ha pensato solo a sé stesso. Il nonno, con il suo rigore, la sua severità sta riparando: insegna al figlio a essere responsabile della famiglia, a mantenerla, a occuparsene. Certo, in maniera eccessiva, ma comunque l’intenzione è positiva. Il conflitto, dicevamo, non può essere evitato. Deve essere affrontato. E deve essere affrontato fuori. Perché è fuori.
Se il figlio rinuncia, il conflitto non è risolto. E’ solo, di nuovo, messo da parte, in sospeso.
Qui potremmo disquisire a lungo su “chi ha ragione”, “chi fa bene e chi fa male”, “chi è il buono e chi è il cattivo”. Qualcuno sosterrà le ragioni del figlio, qualcuno le ragioni del padre.
Ma il punto non è chi ha ragione. Il conflitto non si risolve con la ragione.
Il conflitto si risolve facendo una scelta. E la scelta si deve fondare su quello che io sento di voler essere e di voler fare.In una situazione come questa, di generazione in generazione c’è un figlio che si sente chiamato a rinunciare a sé stesso per un bene maggiore “per la famiglia, per la tradizione, per la sicurezza economica”. Certamente questi sono aspetti importanti, ma non c’è un unico modo di perseguirli!
E, soprattutto, non possiamo identificarci totalmente nel “se faccio quella cosa allora vado bene, se faccio l’altra allora non vado più bene”.
C’è spazio per il dovere e c’è spazio per la libertà. C’è spazio per la sicurezza economica e c’è spazio sulla via da seguire per raggiungerla. C’è spazio per onorare la famiglia e c’è spazio per onorare sé stessi come persone.
Il conflitto del figlio si può risolvere solo nel momento in cui il figlio dice al padre, da uno stato interno di pace e di assertività “Padre, io ti voglio bene e ti rispetto. Ti ringrazio per tutto quanto hai fatto finora per me. Ma non studierò Giurisprudenza. Ho deciso di iscrivermi ad Architettura”. Lì si risolve. Punto.
Si risolve perché a quel punto il figlio ha accettato chi è. Ha accettato che lui è la persona che è. Si sente in diritto di essere chi è.
Ha assunto una posizione adulta. E’ maturato. Ha smesso di cercare l’approvazione del padre e si approva da solo. E’ possibile che il padre non approvi. Che si arrabbi. Che non parli più al figlio per un anno. Che non lo mantenga agli studi.
Tutto questo un Adulto lo può gestire. Con tristezza, con dispiacere, con timore, ma lo può affrontare.
E’ fondamentale lo stato interno, il posto interno da cui scaturisce la decisione del ragazzo. Deve essere dalla pace e dall’assertività. Perché se nasce dalla paura, dalla rabbia, dal dovere, allora tutto questo sottenderà un tentativo di manipolare i sentimenti del padre.
“Gli faccio vedere io chi sono! Sono io che decido per la mia vita, non lui!”, “Farò quello che vuole lui… così lui è contento e io sono al sicuro…”, “Farò il mio dovere! Sono un bravo figlio, non potrà non accorgersene!”.
Abbiamo paura del conflitto, abbiamo paura che si evidenzi il conflitto, quando questo metterebbe in luce la nostra intenzione manipolatoria.
Se è vero che il padre ha bisogno di iniziare a rispettare il figlio per quello che è, anche il figlio ha bisogno di iniziare a rispettare e accettare i sentimenti del padre nei suoi confronti. Ha bisogno di imparare a tollerare che “Per mio padre sono una delusione”.
Tolleralo, non crederci. E andare avanti.
Se abbiamo la forza di credere in noi stessi, il conflitto ci farà meno paura. Se penso a me, alle volte in cui ho affrontato il conflitto apertamente e ho combattuto per ciò che volevo, se penso ai momenti in cui ho lottato perché sentivo che veramente volevo una cosa, non mi sono sentita sola.
Mi faceva compagnia l’essenza a cui ero fedele in quel momento, a quello che sentivo che volevo in
quel momento. E questo mi dava una forza tremenda. Ci credevo con tutta me stessa. Il conflitto è per crescere. E’ per aiutarci ad arrivare dove vogliamo arrivare, per spronarci a diventare chi siamo.
E’ nostro dovere crederci.
Perché se non ci crediamo noi, chi altro lo farà?