Michele ha 45 anni ed è un ingegnere informatico. Lavora da vent’anni per un’importante azienda che si occupa di sviluppo e progettazione di sistemi informatici per altre aziende. Il suo lavoro consiste nella realizzazione e gestioni di software, dispositivi e infrastrutture per la trasmissioni di dati.
E’ un lavoro per il quale ci vogliono competenze specifiche, che Michele ha acquisito nel corso del tempo. E’ entrato in quest’azienda appena laureato e poco a poco, nel corso degli anni, gli sono stati affidati compiti sempre più complessi e di responsabilità. Fino a qualche tempo fa occupava una buona posizione, il lavoro era ben retribuito e lui ne era molto soddisfatto.
Da qualche tempo, però, ci sono problemi in azienda. Da circa un paio d’anni c’è meno lavoro e sono iniziati i tagli al personale. Per il momento il posto di Michele è salvo, ma gli è stata comunicata una riduzione delle ore di lavoro.
Michele è preoccupato e arrabbiato. A 45 anni non è semplice trovare un altro lavoro. Inoltre suo figlio inizierà l’università tra pochi mesi, fuori sede e lui si è già impegnato perché il ragazzo possa andare avanti con gli studi. Ma soprattutto si sente indignato per come l’azienda ha gestito tutta la vicenda e gli sembra ingiusto il modo in cui lo stanno trattando.
Un suo caro amico, che è in contatto con il titolare di un negozio di elettronica, gli dice che in questo negozio stanno assumendo personale. Michele, con la sua esperienza e le sue competenze, potrebbe senz’altro candidarsi, anche solo per un part-time. Inoltre, lui conosce il titolare, potrebbe presentare Michele e garantire sulla sua serietà e professionalità.
Michele è combattuto. Alla sua età, andare a fare il commesso… e per di più dovrebbe essere nel fine settimana, quando lui di solito sta con la sua famiglia e si riposa… Più e più volte si ritrova sul punto di chiamare il numero che il suo amico gli ha passato ma, ogni volta, rimanda: “Chiamo più tardi… ora sarà chiuso… prima provo a vedere cosa succede in azienda alla riunione di domani…”.
Non riesce a decidersi.
Allo stesso tempo si rende conto che deve fare qualcosa e che questa sarebbe una soluzione per tamponare la situazione, in attesa di vedere come evolve la crisi in azienda. Così, dopo mille ripensamenti e tanto rimuginare, stampa una copia del suo curriculum, sale in macchina e si dirige al negozio per andare a presentarsi.
Arriva davanti al negozio, parcheggia, sta per scendere dal veicolo e, per l’ennesima volta, si blocca. Se ne sta seduto in auto, a guardare l’ingresso del negozio, il curriculum lì a fianco, senza muoversi, senza entrare. Si sente agitato, sente pressione al petto, una leggera tachicardia, si sente arrabbiato e triste insieme. Gli viene addirittura un po’ da piangere. Resta così per una ventina di minuti, finché rimette in moto l’auto e torna a casa.
Che cosa blocca Michele? Cosa lo trattiene dall’entrare nel negozio, presentarsi al titolare, stringergli la mano, candidarsi per il posto di lavoro?
Per rispondere, iniziamo leggendo un estratto dal libro “Letting go” di David R. Hawkins, medico e psichiatra, in cui l’autore parla in prima persona della propria esperienza:
“Nella mia esperienza personale durante i periodi di forte disoccupazione, come quello che ha seguito la fine della seconda guerra mondiale, non ho avuto il minimo problema nel trovare lavoro. Di fatto, svolgevo due, a volte persino tre lavori contemporaneamente: lavapiatti, cameriere, tassista, barista, operaio, giardiniere e lavavetri. (…) Questo fu possibile grazie a una disponibilità da parte mia a rinunciare all’orgoglio in cambio di un lavoro.”
Il dott. Hawkins baratta il proprio orgoglio con un lavoro.
E’ un medico, ma non c’è lavoro per un medico. Però bisogna vivere, bisogna pagare l’affitto, le bollette, fare la spesa, mantenere i figli… Così lui baratta il proprio status di medico con un lavoro qualsiasi, un lavoro umile, che però gli permette di mantenersi.
Si adatta alla situazione. Si rende atto a quanto sta accadendo. Michele è nato in una famiglia umile. Suo padre era un operaio, sua madre una casalinga. Nessuno di loro ha avuto l’opportunità di studiare oltre la scuola dell’obbligo.
Michele è il primo e unico laureato in famiglia. E’ il primo dottore.
La sua naturale inclinazione per gli studi, per la matematica, per le scienze è venerata in famiglia. Per i suoi genitori e per sua madre, in particolare, questo figlio è un grande motivo di orgoglio. La madre di Michele proviene da una famiglia in origine molto benestante che, a un certo punto, per una questione di liti familiari, si ritrovò a perdere tutto quello che possedeva. Lei era ancora bambina quando accadde. Da un momento all’altro si ritrovò a passare dall’essere “servita e riverita” a dover andare a lavorare per contribuire al sostentamento della famiglia.
Crebbe sentendo sua madre (la nonna materna di Michele) lamentarsi e recriminare costantemente contro il marito, da lei ritenuto responsabile della loro rovina. Di fatto la nonna non accettò mai il fallimento e il tracollo della famiglia e visse il resto della sua vita con un misto di rabbia e di desiderio di rivalsa. La madre di Michele si sposò con il padre di Michele, un operaio che, pur senza essere benestante, non fece mai mancare nulla alla famiglia. Ciò nonostante, è da quando sono sposati che recrimina al marito di non aver garantito maggiore benessere alla famiglia, di non averla resa felice, di non aver provveduto alla famiglia quanto e come avrebbe dovuto e potuto.
Michele è cresciuto respirando il vittimismo e il rancore delle donne e il senso di impotenza e di rassegnazione degli uomini. E’ cresciuto sentendosi solo, rispetto al padre e con un grande carico, una grande pressione, una grande senso di responsabilità nei confronti della madre: renderla felice.
Pensa che sia suo dovere rendere felice la madre e lotta da tutta una vita per riuscirci.
Non si rende conto che l’infelicità di sua madre non dipende né dalla situazione economica, né da qualcun altro. Le crede. Quando si confida con lei sui problemi che ci sono al lavoro, lei lo rinforza nel suo sentimento di indignazione e disapprovazione “Non puoi abbassarti a fare il commesso! Un professionista del tuo livello! Devi farti valere! Devi fargli causa! Devi obbligarli a reintegrarti a tempo pieno!”.
Michele si sente molto solo e non sa dove sbattere la testa.
Quello che non ha ancora capito è che sua madre lo sta manipolando. Se va a fare il commesso diventa un fallito, come suo padre e suo nonno. Se rimane al lavoro facendo la metà delle ore e lottando contro l’azienda, non ha di che mantenere la sua famiglia e diventa un fallito agli occhi del figlio e di sua moglie e non sarà più Il figlio di sua madre.
Se Michele potesse osservare la sua situazione da distante, potrebbe scoprire quello che il dottor Hawkins descrive nel suo libro.
Proviamo a farlo noi.
Proviamo a descrivere la situazione oggettivamente, senza giudicarla o interpretarla.
Michele lavora come ingegnere nell’azienda X. Dal prossimo mese il suo monte ore lavorativo sarà ridotto e il suo stipendio passerà da Tot a tot. Con questo stipendio non può far fronte alle spese. Un amico, che conosce la situazione, gli passa il contatto di un negozio dove cercano personale.
Se osserviamo da questo punto di vista, vediamo che il problema non è oggettivo, ma soggettivo. Non è un problema economico o lavorativo. È un problema di status, di immagine. Se Michele barattasse l’orgoglio con il posto di lavoro da commesso, la situazione lavorativa si rimetterebbe immediatamente in equilibrio, anche se solo temporaneamente. Ma comunque si assesterebbe.
Ma qualcosa si squilibrerebbe dentro di lui, nel suo ego. Non sarebbe più Il figlio di sua madre.
Sarebbe come suo padre e come suo nonno. La manipolazione di sua madre diventerebbe evidente “Sei mio Figlio e ti voglio bene se sei diverso da tuo padre, se ti comporti così e così… Se non lo fai, non ti accetto più!”.
L’ego non è male, ci è assolutamente necessario per stare al mondo. Ma a volte diventa eccessivo, diventa tirannico. Arriva al punto di convincerci che non siamo persone di valore a meno che…
Michele ha bisogno di iniziare a ragionare con la sua testa e con il suo cuore. Ha bisogno di iniziare a guardare suo padre e suo nonno con occhi diversi. Finora ha guardato e giudicato questi uomini attraverso gli occhi e le parole della madre e della nonna. Ha bisogno di iniziare a guardarli solo con i suoi occhi e solo con il suo cuore.
Tutta la vita è stato manipolato dalla madre, che lo ha messo al posto del padre e gli è mancato vedere suo padre dare un limite alla moglie, e riconoscere e onorare il proprio lavoro e il proprio operato.
Dentro di lui c’è un bambino che si trova fra a due genitori che litigano, mentre pensa che tocca a lui far andare le cose come devono andare. Soddisfare la madre e rivalutare il padre. E’ un compito enorme e, soprattutto, impossibile.
Ognuno di noi è una persona di valore, indipendentemente da tutto e da tutti. Michele ha bisogno di disidentificarsi dal suo ruolo di figlio, di professionista, di padre, di marito e di tornare ad essere semplicemente sé stesso: una persona che ha studiato, che ha delle competenze, una persona responsabile, una persona che affronta le prove della vita come può. Non è una persona di valore per quello che ha, o per quello che fa.
Bene o male che vada, lui è valido.
Il trattamento indegno che sente di stare ricevendo dall’azienda è il trattamento che lui riserva alla parte di sé che considera non-degna. Il bambino che è in lui e che si sente in difficoltà, bisognoso d’aiuto, disorientato, confuso. Una parte che lui ha imparato a giudicare inferiore.
Per non perdere il suo status, in primis di bravo figlio e poi di bravo professionista, perde sé stesso.
Le polarità tra cui oscilla sono il successo e la rovina.
Quando adottiamo questa mentalità, la rovina è sempre dietro l’angolo. Corriamo per raggiungere il successo ma, in questo modo, paradossalmente, diamo credito alla rovina. Se la sfuggiamo vuol dire che esiste, che ci può far male, che siamo impotenti.
Tutti noi giudichiamo il successo buono e la rovina cattiva. Ma la rovina non è quando le cose vanno male. Di fatto il successo non potrebbe esistere la rovina. E senza discesa non ci potrebbe essere risalita. La rovina è quando noi pensiamo che le cose vanno male, anche quando non vanno così male!
Vi sembra assurdo? Eppure è così.
La madre di Michele, seppure dopo anni di difficoltà, sana la sua situazione economica e sociale. Si sposa e conduce una vita dignitosa. Eppure, continua a pensare a quello che aveva e non ha più e a quello che avrebbe potuto avere e non ha! Questa è miseria.
La madre di Michele non si adatta. Non si adatta quando da ricca diventa povera, ma non si adatta nemmeno quando da povera riprende agiatezza! Michele sta rischiando il lavoro, è vero. Gli sarà ridotto lo stipendio, è vero. Magari è vero anche che l’azienda non lo sta trattando bene. Però ha una possibilità! Se si adatta può farcela a superare questo momento.
A Venezia c’è un detto “Sei ore cala, sei ore cresce”. Si riferisce alla marea, quando viene l’acqua alta. Ma, più simbolicamente, si riferisce alla vita, coi suoi alti e bassi. La vita ci presenta continuamente problemi. E con i problemi ci presenta le soluzioni. Il fatto è che a volte le soluzioni ci sembrano peggio dei problemi e diciamo “Piuttosto che fare quello, me ne sto come sto!”.
Questa è rovina.
La realtà interna di Michele è così squilibrata sulla polarità del successo (“devi avere successo, devi essere un grande professionista, devi essere un bravo figlio, non ti devi abbassare, non devi perdere”) che c’è bisogno di riequilibrarla.
Per fare questo Michele ha bisogno di imparare ad avere meno paura della rovina. La Vita lo sta aiutando mandandogli necessità. Perché solo davanti alla necessità possiamo considerare l’altra opzione, quella che ci ostiniamo a rifiutare.
Non è un castigo, non è una punizione. E’ per farci rendere conto che possiamo e dobbiamo andare avanti, oltre le nostre paure, i nostri giudizi, i nostri fantasmi. Per toccare con mano che siamo molto più forti di quanto pensiamo.